venerdì 10 gennaio 2025

Biden premia Soros, alfiere dell’egemonia americana Politica /di Andrea Muratore da Inside Over


Tra le sue ultime mosse da presidente, Joe Biden ha deciso di concedere a diverse figure di spicco della società americana e non la Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti: tra il cantante Bono e il cestista Kareem Abdul-Jabbar, tra l’ex candidata alla presidenza Hillary Clinton e il calciatore Lionel Messi spunta George Soros, il magnate 94enne di origini ungherese, finanziere d’assalto e patron della Open Society Foundation.

Il controverso finanziere, accusato da molti suoi critici di aver usato la sua attività filantropica per condizionare in senso filoamericano e filoccidentale le società di molti Paesi, soprattutto dell’ex Patto di Varsavia, è stato premiato da Biden per aver sostenuto da “investitore e filantropo” lo sviluppo dei “pilastri chiave delle società aperte, dei diritti e della giustizia, dell’equità e dell’uguaglianza, della libertà ora e in futuro”.

Il patriota Soros

Alex Soros, figlio del magnate di famiglia ebrea scampato all’Olocausto e divenuto poi discepolo di Karl Popper prima e attivissimo speculatore poi, ritirando il premio in nome dell’anziano padre lo ha definito un “vero patriota americano” e Biden ha ammesso che il riconoscimento è stato garantito a Soros “per tutto quello che ha fatto per aiutare questo Paese“. Va detto, fuor da ogni ipocrisia: Soros junior e Biden hanno detto la verità. Anche a costo di inibire, in questo caso, il messaggio con cui il premiato ha sempre presentato la sua azione, vista come un’opera genuina di promozione e difesa delle società aperte, dei diritti umani, dei valori della democrazia. Un anelito che, indubbiamente, in molti contesti l’Open Society ha sostenuto, ma che spesso un esponente attivo della finanza americana come Soros, uomo di straordinaria intelligenza che spesso ricorda di essersi arricchito dopo aver capito un presunto nesso tra il pensiero filosofico di Popper e il funzionamento dei mercati, ha condizionato pro domo sua.

Prima della fine del comunismo in Europa orientale, Soros ha finanziato dal 1979 in avanti il progetto Carta 77 in Cecoslovacchia, il sindacato cattolico Solidarnosc in Polonia e il dissidente Andrei Sakharov in Unione Sovietica. All’ombra degli Accordi di Helsinki e dello sdoganamento del dissenso in Est Europa, Soros, esule di un totalitarismo omicida come quello nazista, capì che la leva della liberaldemocrazia sarebbe stata fondamentale per garantire a molti Paesi la graduale uscita dal socialismo reale. E, en passant, l’avvicinamento al campo atlantico e agli Usa.


In Est Europa funzionò, e diversi rampolli della Open Society formatisi grazie alla Central European University fondata da Soros a Budapest nel 1984 divennero araldi del liberalismo post-comunista in molti Stati. Un nome su tutti, che poi ha preso strade diverse, è quello di Viktor Orban, che studiò a Londra con la Open Society e poi divenne, nel suo primo mandato da primo ministro (1999-2002), il fautore dell’ingresso ungherese in Unione Europea e Nato. Soros ha anche sostenuto figure come l’ex presidente georgiana Salome Zouribachvili e diverse Ong nella Serbia degli Anni Novanta che lottarono per la fine del regime di Slobodan Milosevic. Ma si possono indicare come incardinate negli interessi Usa anche diverse sue mosse e prese di posizione su altri teatri.

Si pensi ad esempio al grande attacco speculativo a lira e sterlina del settembre 1992, condotto da Soros con la regia operativa di un team in cui era membro il futuro segretario al Tesoro Usa di Donald Trump, Scott Bessent. Operazione che fruttò ai fondi soriani un miliardo di dollari e contribuì a rafforzare l’idea che nell’Occidente trionfante dopo la fine della Guerra Fredda solo il biglietto verde sarebbe stato una valuta egemone. O alle numerose prese di posizione con cui Soros, a metà Anni Dieci, anticipò l’ampliamento dello scontro tra Stati Uniti e Cina.


L’ala sinistra del potere globalizzato americano

Nel 2020, in piena prima amministrazione Trump, notavamo come le posizioni del “liberal” Soros su Pechino fossero, al netto di toni diversi, perfettamente sovrapponibili a quelle del “sovranista” Steve Bannon. Pensiamo sia utile riproporre oggi la visione che davamo allora del peso strategico dell’agenda Soros per l’interesse americano. Non servono complotti o cospirazioni, come i numerosi che spesso riguardano il magnate 94enne, per spiegare la storia di un finanziere d’assalto dalla grande influenza politica. Soros, scrivevamo, “è portavoce e capofila dell’ala liberal-progressista del mondo a stelle e strisce“.

Parliamo di un’ala del sistema di potere Usa “con relativi apparati, gruppi d’influenza e cordate politiche, favorevole a difendere lo status quo e la narrazione della globalizzazione in quanto estremamente favorevole al mantenimento della supremazia e della centralità statunitense nel mondo. Capace di portare avanti un’agenda ideologica in cui l’apertura delle frontiere al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali sono molto spesso sottovalutate rispetto al più visibile sostegno alla libera circolazione degli uomini“, la cu popolarità è legata soprattutto al fatto che “ha preso piede soprattutto nella Sinistra europea in cerca di punti di riferimento dopo la caduta del Muro e l’avvio della globalizzazione”. Cinque anni dopo, la lettura ci pare ancora valida.


Soros era stato su scala ampia ciò che Bannon ha provato, senza successo, ad essere per il mondo conservatore: lo “zio d’America” capace di vendere, fuori dai confini della superpotenza, la capacità statunitense di dettar legge su molte dinamiche politiche, ideologiche e strategiche, fornendo la narrazione ideale per leggere il presente a un mondo in difficoltà nella ricerca di ancoraggi solidi sul fronte dei propri riferimenti culturali e ideali. Biden ha perfettamente ragione quando dice che chi ha seguito l’agenda Soros ha seguito, di fatto, un progetto di matrice americana. Questo non vuol dire che gli aneliti di libertà e democrazia su cui spesso Open Society ha fatto leva non fossero genuini, ma che ovviamente gli interventi sono stati ben più consistenti in Paesi dal ruolo strategico o geopolitico più accentuato.

Musk sulle orme di Soros?

Biden afferma l’ovvio, ma è un ovvio che pesa di fronte alla retorica globale e umanista dell’agenda Soros. Ne qualifica la natura squisitamente americana, da alfiere di punta della proiezione di soft power nel laboratorio perenne delle “guerre ibride” ideologiche che la fase di costruzione della democrazia est-europea nel post-Guerra Fredda ha fatto sorgere. Un’agenda di successo, anche se ormai il mondo globalizzato non si è rivelato il giardino fiorito di democrazia e libertà promesso dall’America Anni Novanta e Duemila e da figure come Soros. Il quale, a 94 anni, può dire di esser stato uno “zio d’America” d’eccellenza e di successo.

Chi raccoglierà il suo testimone? Il maggior indiziato, e chi ci sta provando con più convinzione, è Elon Musk, guru della destra libertaria mondiale che al tempo stesso è demiurgo, ideologo e promotore di un’agenda libertaria sul piano economico, conservatrice sul fronte sociale e guerriera contro i presunti “nemici dell’Occidente” sul piano culturale. Da Javier Milei a Giorgia Meloni, da Santiago Abascal a Alice Wiedel, sono molti i leader ammaliati da Musk come lo furono molti big del progressismo globale da Soros venti o trent’anni fa. Musk avrà successo come il suo predecessore liberal? Tutto da vedere. Ma chi in Europa oggi denuncia le sue ingerenze, spesso sgrammaticate, senza al tempo stesso ricordare le mosse pro domo Americana di Soros come problematiche vede solo una parte della realtà. Quella, troppo spesso, condizionata, dalla simpatia per uno “zio d’America” piuttosto che per un altro.


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