Non sono solo le parole di una canzone, ma la realtà delle cose.
Non c'è uno straccio di prova, che i presunti "esecutori materiali " condannati, quel giorno fossero alla stazione di Bologna.
Costruire colpevoli di comodo è un ulteriore oltraggio alle vittime della strage
Questo detto da noi, uomini della strada.
A Gilberto, Luigi, Francesca e Valerio
L'Articolo che postiamo entra invece in maniera più articolata riguardo agli aspetti legali
dell'ultima sentenza di condanna per Gilberto Cavallini.
Cavallini, un ergastolo inquietante
La decisione della Suprema corte cancella il principio Ne bis in idem
Al di là delle reazioni politiche - di sostanziale tripudio a sinistra, di silenzio assoluto della Destra di governo (il Secolo d'Italia, addirittura, non ha nemmeno pubblicato la notizia della condanna di Gilberto Cavallini) -, c'è un aspetto che si può definire rivoluzionario, nella sentenza della Corte di Cassazione di ieri, quella con cui si pensa di aver posto il sigillo definitivo al processo per la Strage di Bologna.
Per comprenderne la portata, però, bisogna premettere il significato giuridico dell'espressione latina: No bis in idem. Un principio - questo è fondamentale - che dovrebbe cementare le garanzie di un imputato anche a fronte di un palese errore giudiziario da cui, eventualmente, abbia tratto un beneficio.
Nel sistema penale italiano, infatti, una diversa interpretazione degli stessi temi di prova introdotti in un processo dalle parti - accusa, difesa e parti civili - è ammessa e prevista nel giudizio di secondo grado o di appello che dir si voglia. Una volta, però, che detti temi siano stati sviscerati e valutati nuovamente - quale sia stato l'esito per l'imputato, positivo o negativo, non conta - e il metodo della loro analisi sia stato valutato formalmente legittimo dalla Cassazione - terzo grado di giudizio - il processo è concluso. E l'imputato, assolto o condannato che sia stato, non potrà più essere chiamato a rispondere del reato che gli è stato precedentemente ascritto - e per cui è stato sottoposto a procedimento -, se non alla luce di nuovi elementi di prova, diversi dai precedenti e che, all'epoca del primo processo, per una qualsiasi ragione, non potevano essere conosciuti.
Di contro, come tutti i quotidiani riportano, Cavallini è stato condannato all'ergastolo, poiché è stata accolta la tesi della Procura generale della Cassazione, perché l'ex-nar avrebbe ospitato a Villorba di Treviso gli altri tre camerati già condannati in via definitiva per la Strage di Bologna - Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini -; perché a Fioravanti avrebbe fornito un documento falso; perché la mattina del 2 agosto avrebbe prestato ai suoi sodali la macchina per raggiungere Bologna e compiere l'attentato.
Inoltre, anche la Cassazione rimarca i presunti contatti tra Cavallini e Paolo Bellini, a sua volta condannato in primo e secondo grado per il 2 agosto 1980, dimenticando, però, che quei presunti contatti - labilmente testimoniati da alcune discutibilissime veline dei servizi segreti degli anni '80 - sono stati adombrati in un altro processo, a cui l'imputato non ha partecipato.
Dunque, tornando ai temi di prova principali summenzionati, quali dei tre sarebbe e rappresenterebbe una novità, nel 2025? Sono più di 35 anni, infatti, che è consegnata alla storia - non solo giudiziaria, ma propriamente detta - la compresenza di Cavallini, Mambro, Fioravanti e Ciavardini a Villorba di Treviso, l'1 e il 2 agosto 1980. Così che è altrettanto archeologica la consapevolezza che Cavallini abbia ospitato là gli altri tre. Anche il passamano di documenti falsi con Fioravanti e gli altri membri dei Nar è roba da antiquari. Così come la circostanza di essersi mossi tutti insieme e sulla stessa auto, il giorno del tragico e criminale evento.
Sono tutti e tre temi di prova addirittura più antichi che vecchi e che furono già valutati in tutti i processi celebrati per la Strage di Bologna e che si conclusero - in due distinti e turbolenti procedimenti, con l'alternanza di assoluzioni e condanne - con l'ergastolo a Fioravanti e alla Mambro e con la pena a 30 anni di Ciavardini. E con Cavallini che, invece, venne riconosciuto colpevole solo di banda armata finalizzata alla strage, poiché proprio quei tre temi di prova ne attestavano la generica solidarietà eversiva con gli altri tre, ma non in specifico la partecipazione all'attentato di Bologna.
In altre e più semplici parole, gli stessi giudici che hanno processato e condannato Fioravanti, la Mambro e Ciavardini quali autori della strage, connotandola anche politicamente in modo chiaro, hanno - e più volte - valutato diversamente il ruolo di Cavallini, dovendolo fare sugli elementi qui più volte ricordati e ieri riproposti dal Pg della Cassazione.
E quindi? Quindi, molto semplicemente, Cavallini è stato condannato perché si è manifestamente ritenuto che i precedenti magistrati che hanno valutato la sua posizione - in base ai temi di prova ricordati più volte - avrebbero commesso un clamoroso errore. Il che potrebbe pure essere vero, ma, appunto, senza offrire alcuna possibilità di rimedio, se non prescindendo - o meglio: dissolvendo - il sacrosanto principio del Ne bis in idem.
Un aspetto della sentenza, questo, al contempo fondamentale, clamoroso, inquietante e che, se permetterà ai legali di Cavallini di appellarsi alla Cedu, da una parte; dall'altra, pone un grave e fondamentale dilemma giuridico e politico, visto che le riforme legislative spettano al Parlamento e non alle aule di giustizia. Un problema legato all'imparzialità nell'interpretazione e nell'applicazione del No bis in idem che, in questo momento, da caposaldo del Diritto è stato trasformato in elemento di mera sensibilità giuridica del magistrato investito del compito di vagliare un caso. Un aspetto inquietante, quindi, perché consegna alla soggettività - e quindi anche all'orientamento civile, culturale e politico - del giudice quanto, invece, dovrebbe restare delineato e riconoscibile nel perimetro inviolabile della norma scritta. Da oggi, insomma, anche il verdetto definitivo non chiude più necessariamente una vicenda processuale, una volta e per sempre; ma solo fino a quando qualche altro giudice non manifesti, su quella stessa vicenda, un convincimento differente, rispetto a quello dei suoi colleghi.
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