Dario Hubner, conosciuto come “Il Bisonte”, è stato l’incarnazione del calcio di provincia negli anni '90 e primi 2000. In un’epoca dominata da superstar e grandi squadre, Hubner è riuscito a ritagliarsi un posto speciale nei cuori degli appassionati, segnando a raffica per club di media o piccola portata, dimostrando che non servono grandi palcoscenici per essere un campione.
Nato a Muggia, vicino Trieste, e cresciuto calcisticamente nelle serie minori, Hubner non è mai stato un giocatore dai riflettori puntati addosso, ma un attaccante puro, con una grinta e un senso del gol fuori dal comune. Con il Cesena, il Brescia e il Piacenza, il suo talento è emerso: un bomber che giocava ogni partita come se fosse l'ultima, con una naturalezza disarmante e senza mai perdersi in eccessi. Nonostante non avesse il fisico e l’allenamento dei professionisti più affermati, la sua fame di gol era ineguagliabile.
Nel 2001/2002, con la maglia del Piacenza, realizzò un’impresa storica: vincere la classifica marcatori della Serie A a pari merito con David Trezeguet, stella della Juventus. Un traguardo straordinario per un “operaio del gol”, come veniva spesso definito. Alla domanda su come fosse riuscito a ottenere un tale risultato, Hubner rispose semplicemente: “Io gioco a calcio per divertirmi, poi se vengono anche i gol, meglio così”. Una semplicità che è sempre stata il suo marchio di fabbrica, un modo di vivere il calcio senza pressioni, ma con puro amore per il gioco.
Famoso anche per il suo stile di vita “da bar”, senza rinunce, come lui stesso raccontava spesso: fumava un pacchetto di sigarette al giorno e non si faceva mancare mai un buon bicchiere di vino. "Prima delle partite non mancava mai il mio caffè e sigaretta" diceva con un sorriso, un aneddoto che racconta tanto della sua autenticità. In un’epoca in cui il calcio stava iniziando a diventare business, Hubner è stato uno degli ultimi rappresentanti di un calcio più romantico e vissuto.
Nonostante i tanti gol e i record personali, il suo unico pensiero era dare tutto per la squadra, e i tifosi lo amavano per questo. Un idolo “umano”, che non si è mai montato la testa e che ha sempre giocato con il cuore.
Hubner ci ha lasciato l’immagine di un calcio genuino, fatto di fatica, passione e orgoglio. Non c’era bisogno di sponsor o di luci scintillanti per essere un campione: bastavano un paio di scarpini, un pallone, e una porta davanti. Oggi, il suo nome è ricordato come simbolo di un calcio che non c’è più, un calcio vissuto al massimo, senza compromessi.
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