Monfalcone, studentesse con niqab: l’istituto introduce il riconoscimento privato
Prima di entrare in classe in una stanza appartata prima dell'accesso delle 8 la referente di sede dell'istituto superiore Sandro Pertini di Monfalcone alza il velo nero e si sincera che a entrare a scuola sia l'allieva iscritta. E' la prassi, non codificata ma adottata sul campo per aiutare i docenti, per le studentesse islamiche - bengalesi perlopiù - che per fede indossano il niqab a lezione. Si tratta di cinque ragazze. Lo scrive il quotidiano Il Piccolo oggi in edicola. Un caso sul quale la Lega ha convocato oggi una conferenza stampa. Anche per le materie affrontate ci sono adattamenti: per frequentare le lezioni di ginnastica, le alunne a volto coperto e tunica fino ai piedi indossano abiti alternativi a quelli tradizionalmente in uso; un'insegnante ha introdotto il badminton e qualcuno ha anche dispensato le ragazze dalla corsa. Per la dirigente del Pertini, Carmela Piraino, lo scopo delle modifiche è evitare di "indurre le ragazze a lasciare la scuola", visto che "l'istituzione raggiunge il suo scopo quando l'allievo consegue i cinque anni di studio". Il Piccolo ha intervistato anche una delle ragazze che indossano il niqab: "Ho iniziato a portarlo nel secondo semestre della prima - spiega - e capisco che faccia paura, perché è tutto nero". Per la ginnastica, "svolgo gli esercizi che non fanno vedere il mio corpo. Il problema è lo stage, perché l'insegnante non transige sulla mia identificazione. Oggi gli altri sono andati a fare l'attività, io sono rimasta a scuola. Se i problemi continuano non so se resterò fino alla quinta...". La ragazza ha riferito che i suoi genitori "non volevano che vestissi il niqab, ma è una mia scelta". Nessun problema, invece, per i compagni di classe: "È questione di cultura. Che problema c'è?" e ancora, "vestirsi così è una loro scelta A noi non dà alcun fastidio". (ANSA). DO ANSA
C’è un universo femminile – fatto di mogli, figlie e madri – che ruota attorno alla tragedia delle foibe: tantissime donne che furono vittime e martiri della violenza dell’oppressore e che talvolta, con l’esempio e con l’azione, assursero al ruolo di vere e proprie eroine.
Le loro storie, spesso occultate o distorte, restano ancora misconosciute al grande pubblico: il silenzio assordante che ha avvolto le loro vicende per decenni – evidentemente scomode e ingombranti per i presunti paladini della “libertà” e del “femminismo” – deve essere squarciato dalla sacrosanta ricerca della verità.
Questo libro – ricco di aneddoti, interviste, immagini e dettagli anche inediti – rappresenta una ricerca unica nel suo genere, che getta una nuova luce sui drammatici fatti che caratterizzarono la frontiera orientale tra il 1943 e il 1945. In queste pagine, libere e senza filtri, sono racchiuse le storie di donne comuni, che il coraggio e il sacrificio hanno reso immortali.
Era l'8 febbraio 1984, dopo il derby Triestina-Udinese, Stefano Furlan viene colpito dalla polizia e portato in questura. Il giorno dopo andrà in coma, dopo più di due settimane la morte.
Un agente sarà infine condannato ad una pena irrisoria, dopo diversi tentativi di nascondere le cose da parte delle istituzioni, mantenendo il suo posto di lavoro.
Stefano Furlan si stava recando presso la propria automobile quando venne colpito, e preso, non stava facendo nulla di male, nulla che potesse nemmeno lontanamente spiegare quanto è accaduto, e che ha avuto come epilogo una giovane vita stroncata.
Una vecchia intervista a Massimo Morsello, forse l'ultima, prendetevi qualche minuto, non resterete delusi .
All'interno ci sono delle parole per Enrico Ruggeri, che Massimo, ha conosciuto e frequentato a tal proposito aggiungo a questa intervista l'ultima canzone tratta dal nuovo album di Ruggeri. Coraggiosissimo.
"l'incontro si è tenuto a Roma, il 22 Marzo del 2000
D:- Massimo, partiamo dal principio...
R:- Sono della generazione '58, nasco più o meno 40 anni fa in una famiglia medio borghese profondamente anti comunista anche se, a dire il vero, la politica dentro casa non era un impegno per alcun componente.
Mia madre era nata in Bulgaria e aveva vissuto là fino ai tempi del comunismo, fino a che, a causa di questo dovette andarsene. Mio padre invece era un italiano fortemente anti comunista, ed era anche, in modo però mai professato, ammiratore dell'ideologia sociale del fascismo.
D:- Come nasce il tuo impegno politico?
R:- Alla fine dei 15 anni , in coincidenza con la morte di mio padre, casualmente, cosa possibile in quegli anni politicamente appassionanti, faccio la conoscenza di persone che allora militavano nell'MSI. Comincio questo impegno subito in modo radicale, sostituendo a qualsiasi altro interesse tipico di un sedicenne, come lo sport ad esempio, la politica. Aderisco al Fronte della Gioventù e quasi immediatamente dopo al FUAN, organizzazione universitaria dell'MSI, non perché fossi universitario, ma perché il FUAN rappresentava un po' la scheggia impazzita di un movimento comunque democratico ed accettato quale era l'MSI.
Il FUAN era un po' la ribellione ed il rifiuto dei vecchi concetti collaborazionisti per i quali tutto ciò che si faceva contro lo Stato era deprecabile e per i quali lo Stato andava difeso a qualsiasi costo, pure collaborando con i servizi segreti.
Rifiutavamo veementemente anche posizioni a favore del Patto Atlantico. Tutto ciò riuscivamo a farlo senza che verso di noi da parte del Partito si alzasse forte un'opposizione concreta, forse anche perché il Partito non era abbastanza forte da poterci chiudere...
D:- Una corrente ideologica all'interno dell'MSI...
R:- Beh, non aveva dal partito un riconoscimento in quanto tale, le correnti ufficiali, quella Romualdiana, Rautiana, ecc, si rifacevano un po' tutte a questo concetto politico di fondo che noi rifiutavamo.
Noi riuscivamo però a gestire un po' tutta la base giovanile, romana in particolare, nonostante ripeto non portassimo avanti idee suffragate dal Partito. Riuscivamo a fare un po' quello che volevamo, e ad inserire questo germe di innovazione, di cambiamento, che poi purtroppo per certi versi culminerà per alcuni gruppi nella lotta armata.
D:- Arriviamo così agli anni dell'esilio...
R:- Alla fine degli anni '70 lo scenario politico si fa sempre più cruento ed il ricorso alle armi, per una questione di difesa e sopravvivenza, diventa un fatto naturale; l'illegalità anche, rispetto ad un contesto nel quale "uccidere un fascista non era un reato" e nel quale era impossibile anche andare a scuola senza dover correre rischi o venir minacciati: tutto ciò trasformò negativamente questo ambiente, che era stato fra l'altro abbandonato pure dalla classe dirigente del Partito che mandò in quegli anni un po' allo sbaraglio i giovani che lo costituivano.
Gli sviluppi furono poi una lotta cruenta che rovinò completamente l'esistenza di molti giovani, alcuni morti ammazzati, altri finiti in carcere per periodo che non erano paragonabili a quelli degli immediati anni precedenti: si finiva in carcere con la condanna all' ergastolo, a venti anni di reclusione, che non erano i pochi mesi o settimane che pure io trascorsi nelle carceri italiane.
Nel 1980 questo aspetto cruento della lotta aveva pervaso un po' tutti gli ambienti sia di destra che di sinistra, nonostante in questi ultimi il fenomeno fosse progettato e calcolato...
D:- Qualcuno dice che la lotta armata di destra fosse mossa per lo più dalla disperazione dei singoli...
R:- Sì, da una sorta di reazione ad un dato di fatto di totale abbandono da parte di chiunque: non c'era giustizia da parte dello stato, non c'era giustizia da parte della magistratura, dalla polizia si ricevevano soltanto botte e torture, se ti uccideva un qualche elemento dell'estrema sinistra questi rimaneva impunito...
Questi elementi portavano a delle scelte, a delle scelte che come le ha chiamate qualcuno si possono definire di lotta armata o di spontaneismo. Dal 1980 dovevamo scegliere: o considerare l'origine delle nostre idee e dedicarci a queste con dedizione, o seguire la strada della "bella morte" ed andare fino in fondo facendo una scelta romantica, morendo o finendo in carcere, obbedendo così ad una filosofia per la quale non eravamo Molti addirittura tradirono, imboccando la via del pentimento, altri ancora, in modo deprecabile, si dissociarono con ammissione e riconferma di quanto dichiaravano i pentiti, quindi rendendosi uno strumento di accusa basato sulla delazione.
La mia scelta, e quella di alcuni altri, fu quella di non perdere quello che era lì sulla strada: fuggii nel 1980 in Inghilterra dopo una breve parentesi di qualche mese passato in Germania. In Inghilterra ho cominciato a cercare di venir fuori dalla situazione in cui mi trovavo ma non è ho avuto il tempo: dopo qualche mese io e altri sei camerati siamo stati arrestati su ordine del governo italiano.
Dopo qualche mese passato nel carcere di Brixton abbiamo affrontato il processo di estradizione: trattandosi di reati ideologici e politici, e poiché il pacchetto probatorio fornito dalla magistratura italiana era di scarsa qualità, siamo stati tutti quanti liberati e per enfatizzare il verdetto a nostro favore il giudice inglese tolse all'accusa italiana il diritto di ricorrere in appello.
Da allora, per 19 anni sono stato in quello che forse si può definire "esilio".
D:- Parlami del periodo londinese
R:- Immediatamente dopo la scarcerazione ho vissuto quello che paradossalmente potrei definire il periodo più brutto, come se in realtà nel nostro cuore desiderassimo essere estradati forse per porre fine a questa vicenda che si drammaticizzava sempre di più, soprattutto in virtù di quello che succedeva e continuava a succedere a livello di lotta armata in Italia.
Era come se la vita ci avesse rilegittimato a vivere e di conseguenza a dimostrarle quello che eravamo e quello che potevamo fare. Purtroppo dovevamo scontrarci però con la mancanza della conoscenza della lingua, e con la non abitudine al lavoro, dato che eravamo un po' tutti studenti.
I primi tre anni tutti noi, eravamo sette, cercammo e trovammo lavoro nel campo della ristorazione come lavapiatti, aiuto cuoco, pizzaioli, ecc. Erano lavori ovviamente umili ma a Londra, per una sua atmosfera particolare, l'umiltà del lavoro svolto non pesa. Non pesa perché magari fatto da studenti universitari, da gente comunque di una certa cultura, da persone ricche di altre cose rispetto al denaro. Per quanto possa sembrare strana una cosa del genere, Londra non ci relegava ad un ruolo di "sf***ti" per quanto noi ne facessimo certamente parte.
Dopo i primi iniziali tre anni passati a Londra, ci fu un nuovo tentativo giudiziario intentato nei nostri confronti, questa volta però non da parte, almeno direttamente, del governo italiano, ma da parte della sinistra estrema interna al Partito laburista inglese. Ci si chiese come potesse l'Inghilterra ospitare dei terroristi ed allora venne
aperto un "file" per la nostra deportazione. Tecnicamente e giuridicamente la differenza fra deportazione ed
estradizione sta nel fatto che nell'estradizione vieni estradato nel paese richiedente, mentre nella deportazione il paese dove vivi ti considera persona non gradita e ti espelle dal suo territorio.
Iniziammo allora a cercare delle alternative nel caso in cui le cose fossero andate male, ma non ne trovammo: il Cile, nonostante fosse nei tempi di Pinochet, inizialmente si mostrò simpatetico ma poi all'ultimo momento ci
disse no. Gli unici due paesi che ci avrebbero accettato erano l'Iran e la Libia che però per altri aspetti non erano qualificati.
Alla fine questo tentativo di deportarci, vagliato per altro, nostro timore, da un pannello di ex avvocati ed ex giudici di un certo livello e non dalla magistratura che in Inghilterra è notoriamente molto seria e giusta, per
fortuna non andò in porto. Siccome il caso fece molto scalpore sulla stampa inglese, noi perdemmo tutti i nostri posti di lavoro ed allora si prese la decisione di intraprendere un tipo di attività che non fosse pregiudicabile da eventi di questo genere.
Decidemmo di aprire qualcosa di proprio anche se non si aveva né coscienza di eventuali capacità nostre, né idee particolari. Ci limitammo inizialmente a fare gli autisti di minicab, ossia una sorta di tassisti privati. Chiaramente si viveva ancora, erano passati solo tre anni dall'arrivo a Londra, con una precarietà psicologica ed esistenziale dovuta al fatto che si pensava che la permanenza in Gran Bretagna non sarebbe durata vent'anni. Questo lavoro ci diede la possibilità di vivere per quattro, cinque anni, e ad alcuni di noi fece scoprire anche tendenze stakanovistiche.
Poi, un po' per approfittare di una legge della Thatcher, decidemmo di
provare a fare un business, un'azienda vera e propria.
La legge diceva che se una persona avesse avuto, se ricordo bene, 2000 sterline in banca (il corrispondente di 5/6 milioni di lire italiane) ed un progetto, per un anno lo stato inglese avrebbe pagato uno stipendio e l'affitto di casa... e lì nacque l'idea di aprire "Meeting Point", un po' credendoci e un po' no, l'importante era tirare avanti un anno e smettere con il lavoro da tassisti che non era particolarmente piacevole. " Meeting Point" (agenzia che offre lavoro e servizi vari a stranieri in tutta Europa - N.d.A.) nacque e crebbe velocemente per tutta una serie di motivi
e di ragioni che io riassumo nel senso di rivincita che avevamo ed in quello di accoglienza nei confronti di chi era come noi, di chi come noi, non tradiva le proprie idee e le proprie convinzioni sociali nella gestione della finanza e dell'economia. Di lì a poco " Meeting Point" si impennò passando da una piccola agenzia che forniva camere a studenti, ad un'azienda con sedi in tutta Europa e che impiegava, solo a Londra, una cinquantina di persone: tutto questo accadde rapidamente nonostante subissimo di continuo attacchi dalla stampa in Inghilterra ed in Italia.
Sia io che il mio socio, Roberto Fiore, compagno di sventure e di vicissitudini, ci eravamo riproposti di accettare tutte le persone del nostro ambiente che ci venivano a chiedere aiuto non considerando mai come "conditio sine qua non", l'immagine che ne sarebbe derivata per la "Meeting Point".
Per noi rimaneva inaccettabile l'equazione che vuole un tipo di comportamento sul lavoro ed un altro tipo in casa, in famiglia; noi proponevamo una dottrina sociale e finanziaria che era vincente e nella quale credevamo.
Il successo della "Meeting Point" e la stima che abbiamo conquistato sono dovuti essenzialmente a questa doverosa scelta.
D:- Come è stato il tuo ritorno in Italia?
R:- II ritorno in Italia è stato un po' come un mostro, un fantasma che aspettavamo da anni, ma che non aveva fermato la nostra vita: la vita non permette che si spinga il tasto "pausa" e che si metta come unica condizione il rientro nella propria terra.
Il ritorno è stato molto emozionante, molto emozionante perché anche le cose più stupide apparivano come delle visioni particolarmente profonde e dotate di una certa dimensione.
D:- Quale scenario politico hai trovato in Italia dopo il tuo rientro?
R:- Lo scenario politico non mi ha particolarmente sorpreso in quanto negli anni passati in Inghilterra non avevo mai interrotto i contatti con l'Italia e con l'ambiente politico.
Se devo dire qualcosa, dico che mi ha colpito il fatto che finalmente ci siano di nuovo dei giovani che si interessino alla politica in senso puro, pulito, non carrieristico.
Io ho sempre guardato al nostro ambiente: esso è un contenitore nel cui interno si trovano le persone migliori e le persone peggiori della nostra società. L'affacciarsi di queste persone migliori alla politica mi da un senso di tranquillità per quello che può essere il futuro della nostra nazione.
D:- Parliamo d'altro: qual è il tuo rapporto con la musica?
R:- Per quanto possa sembrare strano, paradossale, io non mi considero né un musicista né un particolare utente ascoltatore di canzoni e di musica.
Potrei vivere benissimo senza la musica, senza quella, ovviamente, che non faccio io! Non ho mai seguito la musica del nostro ambiente, quella alternativa, ma il discorso vale comunque per tutta la musica in genere.
Però mi è anche accaduto di rimanere colpito da alcune canzoni e da alcuni autori nell'ambito della musica che potremmo definire "commerciale": l'unico che secondo me è sempre stato al di sopra degli altri è Francesco De
Gregori.
E' difficile che una canzone di De Gregori non mi piaccia, al limite mi lascia indifferente e difficilmente comunque mi da fastidio ascoltarla una seconda volta, come invece mi accade nel caso di qualsiasi altra canzone.
De Gregori ha un modo di scrivere molto particolare e per certi versi geniale... Ovviamente condivido zero delle sue idee ed anche, nella maggior parte dei casi, delle emozioni che vuole trasmettere.
D:- A proposito di musica commerciale, in passato è stato collegato il tuo nome a quello di Enrico Ruggeri...
R:- Ho conosciuto Enrico in occasione degli Europei di Calcio in Inghilterra. Avevo organizzato un concerto in cui lui doveva esibirsi: la cosa venne ripresa dalla stampa che criminalizzò Ruggeri per aver accettato che dei "terroristi" organizzassero un suo concerto.
In quella circostanza ho avuto modo di conoscere Enrico e di conoscere la sua musica che non conoscevo per nulla: Ruggeri è sicuramente un ottimo autore, è una persona che scrive belle cose ed è una delle poche persone che ha avuto il coraggio di schierarsi in questo attacco che poteva pregiudicare la sua carriera... E' una persona che stimo.
Enrico, che sento tuttora e che se sono a Milano incontro, è un uomo con il quale il rapporto è andato al di là del semplice concerto organizzato a Londra: l'attacco che abbiamo subito da parte della stampa in un certo senso ci ha uniti oltre...
D:- Si è parlato fino ad ora, per quanto riguarda la musica, essenzialmente degli altri. Venendo ora alla tua di musica, e partendo dai suoni che la caratterizzano, è evidente la cura dei particolari con la quale sono realizzati i tuoi lavori...
R:- Quello che dici è vero, nel senso che ho iniziato, a partire dagli ultimi anni, ad amare la qualità, ed essendo questa a portata di mano, non l'ho lasciata sfuggire.
Una bella canzone registrata bene è più bella che registrata male, anche se resta il fatto che quello che conta è altro, e la critica che posso muovere alla musica commerciale è proprio questa: essa cura solo questo aspetto, mentre le cose che si cantano e che si suonano lasciano un po' a desiderare.
Non reputandomi un musicista credo di avere scritto e cantato sempre le cose che vivevo, restando comunque rispettoso nei confronti di registrazioni che mostrassero un minimo di qualità. Per quel che riguarda gli ultimi due album un grande merito va al chitarrista del mio gruppo, Laurent Bachet, che è tra l'altro mio cugino: Laurent è una persona particolarmente meticolosa ed attenta ad ogni piccolo dettaglio; è lui che si è fatto curatore di cose che io proponevo magari in stato "embrionale".
D:- Musica e voce particolarissime, riconoscibili ad un chilometro di distanza... Il tuo è uno stile quasi unico, direi, che contraddistingue oltre a te un altro artista del quale abbiamo già parlato: De Gregori. A differenza di De Gregori, però, tu affronti tematiche svariate ed originali, spesso autobiografiche...
R:- Beh, quello è dovuto essenzialmente alla mia militanza politica: tutto ciò che apparteneva a quella sfera, io l'ho trasferito in musica. Già durante la prima settimana del mio impegno politico, ad esempio, partecipai a dei disordini di piazza contro le forze dell'ordine e la sera stessa, dopo essere tornato a casa, scrissi tutta di un fiato "II battesimo del fuoco". Mi sembrava un modo questo, per fermare quei momenti intensi, belli, per dargli un senso che fosse una chiave emotiva trasferibile anche agli altri.
Non credo però, come dici, che la mia musica sia così particolare, credo che rientri nell'archetipo della musica cantautoriale italiana. Non per fare gratuitamente il modesto, ma dal punto di vista tecnico, di costruzione della canzone, di poesia, e di qualità della voce considero De Gregori a miglia di distanza di superiorità nei miei confronti.
D:- II tuo ultimo lavoro, la canzone "Bella luna" è una piccola, splendida poesia che tu hai scritto per Benedetta, la tua ultima figlia: le figlie di Morsello cosa pensano della musica del padre?
R:- Escludendo ovviamente Benedetta che ha poco più di un anno, direi che mia figlia quattordicenne sopporta, tollera la mia musica; mi ha confessato infatti che essa non fa per lei: c'è qualcosa comunque, il legame di sangue forse, che la rende fiera di questa cosa che faccio.
La figlia ventenne che si occupa di politica invece, conosce la mia musica un po' da sempre, apprezzandola anche, dato che conosce più o meno tutti i miei pezzi a memoria.
D:- Cosa ti spinge a scrivere, cosa ti da lo scrivere?
R:- Scrivere è in un certo senso immortalare certe emozioni, è fermare e contrastare quella paura che scaturisce dalla sensazione che le cose si possano perdere nel tempo.
A livello di ritorno è bello trovare spesso giovani persone, che non conosco per nulla, che conoscono molto bene la mia musica e le mie canzoni e che per qualche motivo ne sono compiaciuti ed avvantaggiati.
D:- Al di fuori dell'ambito puramente musicale, c'è qualche scrittore, qualche poeta che ti ha colpito o che ti colpisce particolarmente?
R:- Quello che in ambito letterario mi ha colpito ultimamente è stato innanzitutto Antoine de Saint-Exupery ed in particolare il suo libro "La cittadella", e, ancor più recentemente, gli scritti religiosi sul cattolicesimo tradizionalista, non tanto per gli autori di queste opere, quanto per il tema da queste ultime affrontato: è incredibile scoprire che fenomeni di insorgenza si siano verificati anche in posti inimmaginabili come, ad esempio, il Messico...
D:- Ti riferisci al fenomeno dei Cristeros messicani?
R:- Sì, esattamente. La battaglia ideologica contro la Rivoluzione Francese è tutt'altro che chiusa, anzi è ancora molto aperta...
D:- II generale Leon Degrelle, al quale tu hai dedicato una canzone, ha scritto un libro intitolato "Militia", nel quale è avvertibile costantemente la presenza di una forte spiritualità ma anche, aggiungerei, di una forte religiosità: tu sei dichiaratamente cattolico, cosa significa per te esserlo?
R:- Essere cattolico rappresenta un'aggiunta all'essere cristiano. Nel senso giusto e tradizionale del termine essere cattolico significa non prendere scorciatoie di fronte a riti e funzioni che vanno intrapresi; significa non farsi degli sconti sulla propria religiosità.
Lo stesso Degrelle in "Militia", libro tra l'altro fondamentale per chi volesse intraprendere la via della politica, era su queste posizioni. La religiosità per un uomo si può riassumere nella ricerca e nel rispetto di Una Verità, che in un certo senso è stata già rivelata. Il mondo moderno di contro propone invece delle multi verità inserite in un contesto di globalizzazione.
La Chiesa cattolica, e lo dico nonostante io sia profondamente anticlericale - ma chi non lo è? - rimane comunque la via della salvezza, e poiché la Verità è Una, è una anche la via che conduce ad essa. Penso inoltre che nell'ambito del Cristianesimo, il Cattolicesimo rappresenti ancora la via iniziale, originaria, nonostante la Chiesa Cattolica abbia risentito e risenta della modernizzazione degli ultimi tempi, del buonismo imperante, della massoneria, della gelosia, dei tradimenti, del servilismo verso l'immagine, del politicismo...
La Chiesa Cattolica, soprattutto il tradizionalismo cattolico, resta comunque un sostegno del quale un uomo non può fare a meno per la propria salvezza soprattutto in questa nostra era.
D:- Per finire, una domanda che a seconda di come la si interpreti può apparire molto profonda o molto stupida: come te lo immagini, se te lo immagini, Dio?
R:- La domanda non è affatto stupida, anzi è interessante, anche perché rappresenta uno dei pensieri che occupa la mia mente di continuo da due anni a questa parte; è una cosa questa alla quale penso spessissimo... Pensare a Dio in maniera razionale ti porta a provare da una parte l'esistenza di Lui, mentre dall'altra, se ci si affida al relativismo, a pensare al fatto che possa essere un'invenzione dell'uomo, che possa essere, come dicono i comunisti, la droga dei popoli.
Io però sono convinto di un fatto: esiste, e questa è la mia forza, un Ordine naturale che è stupefacente!
Per quanto uno possa liberarsi della costrizione di Dio, quindi facendo così una scelta totale, agnostica, rimane il fatto che tutta una serie di cose questa persona avrebbe difficoltà a farle, ma anche solo a pensarle. Qualche illuminista potrebbe commentare queste considerazioni definendole retaggio di cultura, ma non riuscirebbe comunque seriamente a smentirle. Ci sono cose ad esempio, basti pensare all'aborto, ma anche all'omosessualità, che sono del tutto innaturali, non perché irrealizzabili o poco "ecologiche", ma perché non conducono a nulla, non portano vita: sono esterne, queste cose, al disegno naturale di Dio!
Non è possibile con l'aborto preservare la vita o migliorare la qualità di una vita, perché per arrivare a questo si deve uccidere comunque un'altra esistenza; non è possibile con l'omosessualità dire che si preserva la libertà di scelta perché in quella circostanza l'uomo diventa prigioniero, e non libero, di una cosa che non gli fa produrre altra vita, che non gli fa produrre niente.
Quindi io mi immagino un Dio che ha voluto creare un mondo, o un ciclo, un passaggio di questo mondo, di questo universo, molto simile a Lui: mi immagino un Dio buono e non buonista, tollerante e non permissivo; mi immagino un Dio naturale che per perdonarti comunque ti deve far passare attraverso un percorso di espiazione; mi immagino un Dio padre, accogliente nel senso tradizionale del termine; mi immagino un Dio severo ma amorevole; mi immagino un Dio simile al buon padre della famiglia di un tempo che fu.
" Dal 2004, il 10 febbraio è per tutti gli italiani il Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Lamberto Gherpelli, con equilibrio e partecipazione, legge questa pagina di storia a lungo rimossa in modo nuovo, dando voce agli atleti coinvolti in quelle terribili vicende. Sono le vite intrecciate con il dramma di alcune delle figure più affascinanti dello sport italiano, da Nino Benvenuti, uno dei pugili italiani più importanti di sempre, allo straordinario marciatore Abdon Pamich, dalla grande Triestina di Nereo Rocco alla Fiumana di Ezio Loik e dei fratelli Varglien, alla gloriosa Pro Patria di Giuseppe Meazza, da Cesare Rubini, doppio campione nella pallanuoto e nella pallacanestro, al ciclista triestino Giordano Cottur, che corse il Giro d’Italia per la sua terra martoriata dallo scontro con gli slavi. Grazie ai loro trionfi, questi e tanti altri sportivi esuli istriani, fiumani, giuliani e dalmati sono riusciti a imprimere il proprio nome nell’immaginario della loro generazione, contribuendo così a far sì che sulla tragedia vissuta da una popolazione obbligata in modo violento ad abbandonare le proprie radici non si spegnesse la luce.
"Campioni di confine. Gli esuli istriani, fiumani e giuliano-dalmati che hanno fatto grande lo sport italiano" di Lamberto Gherpelli è da oggi disponibile in tutte le librerie e gli store online. "
Per tutto il mese, 20% su tutti i titoli del catalogo, comprese le novità. Un’ottima occasione per rimettersi in pari e sostenere la cultura identitaria.
Ultras Trieste, derby contro l'Udinese di Coppa Italia, mercoledì 8 febbraio 1983/84
Al termine della partita il tifoso della Triestina Stefano Furlan, un ragazzo che frequentava la curva nord degli UTS sarà ripetutamente colpito, la testa sbattuta sul muro dello stadio, e quindi portato in questura, nel corso di inutili "cariche di alleggerimento" delle forze dell'ordine in assenza totale di incidenti.
Il giorno dopo si sente male, la madre lo porta in ospedale dove entra in coma. Morirà il primo di marzo del 1984 senza mai aver ripreso conoscenza.
All'epoca dei fatti giornalisti e pennivendoli cercarono dapprima di nascondere quel che accadde, per poi invece cercare di depistare con invenzioni di fantomatici incidenti tra tifosi, e cercare di far ricadere le responsabilità sull'estrema destra. Facilitati anche dal fatto che all'epoca i sistemi di comunicazione erano ben diversi da oggi: all'epoca a Trieste c'erano un quotidiano, una televisione locale e la redazione Rai non riuscirono comunque nei loro intenti, grazie innanzitutto alla caparbietà della mamma di Stefano.
Erano allievi di polizia quelli che avevano preso Stefano Furlan, solo uno di questi sarà processato e condannato ad una risibile pena per poi continuare la sua carriera.
Una cosa comunque è emersa: la verità!
Stefano Furlan è stato ucciso dai servi dello stato: ancora oggi ad ogni partita della Triestina viene lanciato sempre questo slogan dagli ultras alabardati e la cosiddetta " giustizia sportiva " puntualmente multa, in maniera beffarda, falsa e meschina la società sportiva alabardata perché i suoi tifosi rivendicano la verità.
CALCI&PUGNI e' una linea di abbigliamento STREETWeAR nata nel 2004 in una piovosa giorna milanese ,
chiuso in un PUB a bere guinness e parlando di storie da stadio,scontri trasferte fumogeni e risate.....
li l'idea di realizzare una maglietta con la scritta CALCI&PUGNI, andata a ruba in pochi giorni, si decide di registrare il marchio e fare altr loghi e scritte.
La risposta e' stata inaspettata tutti volevano una t shirt marcata CALCI&PUGNI......