lunedì 16 giugno 2025

PADOVA 17 GIUGNO 1974: GIUSEPPE MAZZOLA e GRAZIANO GIRALUCCI, UCCISI DALLE BRIGATE ROSSE


 PADOVA 17 GIUGNO 1974

Graziano Giralucci nato A Villanova di Camposampiero (PD), il 7 dicembre 1944, agente di commercio.
Giuseppe Mazzola nato A Telgate (BG), 21 aprile 1914, ex carabiniere in pensione, militanti del Movimento Sociale Italiano, furono le prime vittime delle Brigate Rosse.
L'assalto alla sede del MSI:
intorno alle 10 del mattino del 17 giugno 1974, un commando di esponenti delle Brigate Rosse penetrò con la forza nella sede dell'MSI di Padova, sita in via Zabarella, allo scopo di prelevare alcuni documenti.
Il commando era composto dai seguenti terroristi:
- Roberto Ognibene, esecutore materiale dell'incursione.
- Fabrizio Pelli, esecutore materiale dell'incursione
- Susanna Ronconi, con funzione di retroguardia.
- Giorgio Semeria, con funzioni di autista.
- Martino Serafini, con funzioni di sentinella per un eventuale arrivo delle forze dell'ordine.
Penetrati all'interno del locali, i due terroristi vi trovarono Graziano Giralucci, militante dell'MSI quasi trentenne, e Giuseppe Mazzola, un ex carabiniere in pensione che teneva la contabilità, entrambi casualmente presenti quella mattina nella sede del partito.
I due terroristi estrassero due pistole, una P38 e una 7,65 con silenziatore, e tentarono di immobilizzare i due missini: Mazzola, non intimorito, afferrò la pistola di uno dei due terroristi e Giralucci cercò di immobilizzarlo abbrancandolo per il collo.
L'altro terrorista intervenne sparando un colpo che raggiunse alla spalla Giralucci ed un secondo che colpì Mazzola trapassandogli la gamba destra e l'addome: Mazzola e Giralucci, ormai inermi, furono freddamente uccisi ognuno con un colpo alla testa.

La rivendicazione e la "Pista Nera":

il giorno successivo le Brigate Rosse rivendicarono la paternità dell’assassinio tramite due volantini fatti ritrovare in una cabina telefonica a Padova e Milano, e in seguito con una telefonata alla redazione padovana de “Il Gazzettino”; in tali rivendicazioni viene annunciato che le le due vittime erano state giustiziate dopo essere stati ridotti all'impotenza.
Le Brigate Rosse avevano in precedenza commesso altre azioni violente armate, tra cui il rapimento del procuratore Mario Sossi, a Genova, il 18 aprile 1974, ma questo fu il primo omicidio effettuato e rivendicato a nome delle Brigate Rosse, e venne messa in discussione l'esistenza di tale organizzazione terroristica sia dai giornali che dalla magistratura: per 6 anni infatti, dietro la spinta di giornali di sinistra quali ad esempio il Manifesto, l'Avanti e L'Unità, le forze dell'ordine indirizzarono le indagini su una fantomatica "pista nera", che interpretava l'omicidio di Giralucci e Mazzola come un regolamento di conti interno al partito del MSI.
Tale azione di depistaggio ebbe momentaneamente successo.

Il processo:

Negli anni ottanta, in seguito alle confessioni di vari terroristi pentiti ed ad una più vasta indagine sulle Brigate Rosse, viene aperto il processo per l'assassinio di Giralucci e Mazzola.
In tale procedimento non fu coinvolto Pelli, morto in carcere di leucemia nel 1979.
L'11 maggio 1990 la Corte d’Assise di Padova dichiarano gli imputati tutti colpevoli, con le seguenti condanne:
- Roberto Ognibene, diciotto anni per omicidio volontario.
- Susanna Ronconi, nove anni e sei mesi per concorso anomalo in duplice omicidio.
- Giorgio Semeria, nove anni e sei mesi per concorso anomalo in duplice omicidio.
- Martino Serafini, sei anni, un mese e dieci giorni per concorso anomalo in duplice omicidio.
Oltre ai membri del commando, furono condannati anche i vertici delle BR, considerati mandanti dell'omicidio:
- Renato Curcio, dodici anni e otto mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Mario Moretti, dodici anni e otto mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Alberto Franceschini, dodici anni e otto mesi per concorso morale in duplice omicidio.
Nell'agosto 1991, Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica in carica, propose di concedere la grazia a Renato Curcio; a tale provvedimento si opposero le famiglie Giralucci e Mazzola che, per protesta, chiesero la loro sospensione dallo status di cittadinanza italiana.
Sempre a tal riguardo, Silvia Giralucci, figlia di una delle due vittime e ventenne al momento della lettera, scrisse a Cossiga:
« La grazia è un'ingiustizia che ci offende, sia come familiari delle vittime del terrorismo, che come privati cittadini. Mia madre ed io avevamo già espresso parere negativo alla grazia... La nostra vita è stata profondamente segnata da quell'episodio, è una vita non completa, non normale. Perché dobbiamo concedere una vita normale a chi non ha permesso che la nostra fosse tale? Hanno stroncato e segnato irreversibilmente troppe vite per avere il diritto di godersi la loro. Constatatone il fallimento, vorrebbero, e lei con loro, considerare la loro esperienza storicamente sorpassata, ma il dolore mio e della mia famiglia non è ancora storia, è vita". »
(Silvia Giralucci, in risposta alla proposta di grazia a Renato Curcio da parte del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga)
la Corte d’Assise di Venezia aprì il processo di appello e il 9 dicembre emise una sentenza che inasprì le pene rispetto al primo grado:
- Roberto Ognibene, diciotto anni per omicidio volontario.
- Susanna Ronconi, dodici anni e sei mesi per concorso pieno in duplice omicidio.
- Giorgio Semeria, dodici anni e sei mesi per concorso pieno in duplice omicidio.
- Martino Serafini, sette anni e sei mesi per concorso pieno in duplice omicidio.
- Renato Curcio, sedici anni e due mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Mario Moretti, sedici anni e due mesi per concorso morale in duplice omicidio.
- Alberto Franceschini, sedici anni e due mesi per concorso morale in duplice omicidio.
Nel luglio 1992 Serafini chiese la grazia, mentre Ronconi e Semeria usufruirono della semilibertà e Ognibene, grazie ai benefici della legge sui dissociati, fu impiegato presso il comune di Bologna.
L' 1 agosto 1992 Serafini venne arrestato per scontare due anni e mezzo di pena residui.

domenica 15 giugno 2025

A FRANCESCO CECCHIN - 16 GIUGNO 1979


Raccontate che lottava per un popolo
Raccontate lo schianto del suo corpo
Raccontate del sangue sul selciato
Raccontate il morire a 17 anni
Urlate a chi non vuol sentire !




🖤❤️🖤 Francesco Cecchin: caduto dal balcone con le chiavi strette in mano
Uno "strano modo di morire", a soli 17 anni

 E' il 16 giugno del '79 quando il giovane militante del Fronte della Gioventù muore, dopo 19 giorni di agonia
Per questo omicidio non pagherà mai nessuno, anche grazie alla connivenza del Pci che ha sempre coperto l’unico imputato
“E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile, con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…”
Queste le parole della canzone “Generazione ‘78” che Francesco Mancinelli dedica a tutti i caduti di quegli anni di piombo maledetti.

E anche a Francesco Cecchin. Parole che, ancora oggi, fanno venire la pelle d’oca. “Con le chiavi strette in mano..”. Eh si, proprio così perché quel ragazzo morì all’età di 17 anni, prima massacrato di botte da quattro “compagni” vigliacchi (di cui non si è mai saputo il nome) e poi gettato da un balconcino, sull’asfalto. Un volo di cinque metri. Che dopo 19 giorni di coma, lo ha ucciso. Nonostante le sue condizioni erano nettamente migliorate. “…Strano modo per morire”. Sembra di raccontare la storia di Sergio Ramelli, ancora una volta.
Siamo a Roma, quartiere africano. Il mese di maggio sta volgendo al termine. L’estate è alle porte. Le scuole stanno finendo, i ragazzi iniziano a pensare cosa fare in vacanza. Ma chi fa politica, in quegli anni, non va mai in vacanza. L’ideale prima di tutto. Si fa politica 365 giorni l’anno. Per gli ideali, però si muore anche, in quegli anni.
Si muore per il proprio credo politico. E, come è successo a Francesco, anche solo per aver attaccato un manifesto nel posto sbagliato. Il motto, tanto, è sempre lo stesso: “uccidere un fascista non è reato”.
È soprattutto nella capitale che la guerra tra i “rossi” e i “neri” diventa una questione di egemonia territoriale, di “conquista dei quartieri”.
Francesco Cecchin è davvero giovane. Non ha ancora diciott’anni. È alto, biondo e con gli occhi azzurri. Insomma, il classico bel tipo pieno di ragazze innamorate di lui. “Abbiamo scoperto che aveva due fidanzate, non una. Ed entrambe molto carine”, le parole della sorella Maria Carla.
Ma per lui la priorità è una sola: la politica. È un militante del Fronte della Gioventù; frequenta la sezione di via Migiurtina, la zona più rossa del cosiddetto “quartiere Africano”. L’unico avamposto di sinistra di tutto il circondario, che è invece notoriamente fascista.
Quella sezione del Msi appare come una provocazione in una porzione di territorio che i militanti del Pci considerano “cosa loro”. Diventa ben presto un bersaglio, fino ad essere costretta a chiudere.
Un quartiere, quello Trieste-Salario, che è uno dei campi di battaglia più caldi di Roma. Cecchin è un ribelle nato. Ha solo 17 anni ma coraggio da vendere. È già un leader, un rivoluzionario. Tanto che Terza Posizione lo vorrebbe con sé, anche se è così giovane.
A scuola non va benissimo. Ma più che per demeriti suoi, per colpa dei compagni che lo prendono di mira.
I primi due anni di liceo sono difficili. Due bocciature al tecnico “Mattei”. Di lui, non si può certo dire che sia un “secchione”, ma frequentare la scuola è davvero difficile per Cecchin. Sembra il ripetersi della storia di Sergio Ramelli. Viene isolato, è riconoscibile, un bersaglio facile. Va via da quell’istituto e si iscrive al liceo artistico di via Ripetta. Può così seguire la sua passione innata per il disegno. Il ragazzo passa intere nottate con i pennarelli in mano. Il suo capolavoro è un ritratto di Corneliu Zelea Codreanu, il fondatore delle “Croci frecciate rumene”. Se lo attacca in camera. “CAMMINA SOLTANTO SULLE STRADE DELL'ONORE. LOTTA E NON ESSERE MAI VILE. LASCIA AGLI ALTRI LE VIE DELL'INFAMIA”. Questa è la frase del rivoluzionario a cui più si ispira.
Ma anche all’artistico gli studenti di sinistra sono moltissimi. Ci fa a botte spesso, Cecchin, con i “compagni” che non lo lasciano in pace. La voce si sparge presto: “è un fascista, non deve passarla liscia”.
Non è un violento, ma neanche uno stinco di Santo. Sicuramente però è un ragazzo dall’animo buono.
La sua famiglia è di Nusco, in provincia di Avellino, il “feudo” di Ciriaco De Mita. Il papà, Antonio, è un funzionario del settore cinema al ministero dei Beni Culturali. È stato volontario in Somalia e imprigionato dagli inglesi prima di essere consegnato agli americani, venendo trasferito in cinque campi di prigionia diversi negli Usa. Uno tosto insomma. Il figlio ha preso da lui. La mamma fa la casalinga e la sorella, Maria Carla, studia al primo anno di giurisprudenza. Non navigano nell’oro i Cecchin, ma riescono a vivere in maniera comunque dignitosa. Sono molto uniti.
La sera del 28 maggio 1979 Francesco è in Piazza Vescovio. Nel suo quartiere. Sono le 20, minuto più minuto meno. È insieme con altri tre ragazzi del Fronte della Gioventù. Devono fare affissione. Barattolo di colla e scopa, come di consueto. Ma i giovani camerati vengono notati da un gruppo consistente di compagni, che gli si avvicinano e iniziano a coprire i manifesti. Sono molti di più, come sempre. Venti contro quattro. Vigliacchi. Poco distante da lì, c’è una macchina, una Fiat 850 bianca parcheggiata. Nessuno ci fa caso inizialmente. I compagni sono della sezione del Pci di via Monterotondo. Il loro capo è Sante Moretti, 46 anni ed un passato da pugile. “Vi abbiamo fatto chiudere via Migiurtinia, vi faremo chiudere anche viale Somalia” urla ai quattro missini. Poi si rivolge a Cecchin, e lo minaccia: “tu stai attento, che se mi incazzo ti potresti fare male”. Lui, Francesco, non fa una piega, non si fa intimidire. Un coraggio da leoni. Lo guarda con aria di sfida, si volta e se ne va. Quella frase, quella minaccia, è la dimostrazione che i gruppi di sinistra ortodossa ed extraparlamentare lo temono. Temono un ragazzino di 17 anni con un cuore immenso.
Quella notte Francesco non ha sonno. Ha voglia di uscire. Ma è minorenne e senza sua sorella Maria Carla, i suoi non gli danno il permesso. “Era già mezzanotte. (…)Ero più grande di due anni, sapeva bene che senza di me non era possibile. I nostri genitori non volevano. Si avvicinò e mi disse: ‘Marica Carla, eddai! Vieni con me. Andiamo a fare un giro’. Avrei dovuto pensare che fosse tardi, che era pericoloso, che non aveva senso. Ma non lo feci e risposi va bene”. (tratto da Cuori Neri di Luca Telese)

I due fratelli escono. È mezzanotte e un quarto. Il bar “Vescovio” è chiuso. L’edicola anche. È buio pesto e per strada non c’è nessuno. Francesco e Maria Carla camminano sul marciapiede di via Montebuono. Ad un tratto si avvicina una Fiat 850 bianca che procede lentamente e li segue. La stessa auto parcheggiata in piazza poche ore prima. Il finestrino si abbassa e qualcuno grida “è lui, è lui, prendetelo!”. Scendono due uomini, si mettono a correre per prendere Cecchin. Lui fa solo in tempo a dire alla sorella di scappare, di andarsene e di chiamare aiuto. Poi inizia a correre. E corre anche Maria Carla, ma non riesce a stargli dietro. Impaurita inizia a urlare più volte “Aiuto, aiuto, aiuto!”.
I tre scompaiono nel buio di Via Montebuono. Le grida della ragazza vengono udite da un giovane che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo. Poi salire su quella maledetta Fiat 850 bianca e scappare. Il corpo di Francesco viene ritrovato poco dopo all’altezza del civico 5 (sempre di Via Montebuono). In un terrazzino situato sotto il livello del marciapiede di quasi cinque metri. E’ esanime, disteso sull’asfalto. È in posizione perpendicolare al muro, appoggiato di schiena, con la testa sopra un lucernario. E orientata verso la parete. Impossibile credere che si sia buttato da solo. Francesco è ancora vivo, però. È privo di conoscenza, ma vivo. Perde sangue dalla tempia e dal naso. E poi, nella mano destra ha ancora un pacchetto di sigarette, in quella sinistra stringe un mazzo di chiavi. Incredibile. Cecchin ha fratture più o meno in tutto il corpo, ma la gambe e le braccia sono intatte. Morirà in ospedale dopo 19 giorni di agonia. Il 16 giugno 1979. Soltanto un giorno prima, i medici avevano comunicato alla famiglia un netto miglioramento delle sue condizioni. Poi la morte improvvisa. Se si fosse ripreso avrebbe riconosciuto i suoi assassini e parlato. “Spesso, durante il periodo in cui Francesco è stato in ospedale, sono venute a trovarlo delle persone che io definirei sospette (…), secondo me erano tutti comunisti che volevano vedere le condizioni di mio figlio. Loro lo sapevano bene: se lui fosse rimasto in vita avrebbe denunciato i suoi aggressori. Li aveva riconosciuti e questo loro lo sapevano. E non c’era nemmeno alcun servizio di polizia in ospedale. Poteva entrare chiunque. Stava migliorando. Cosa è successo dopo? Io ancora non so come sia morto mio figlio” (tratto da Cuori Neri).
Ma cosa è accaduto realmente in quei minuti dove i due aguzzini e il giovane si sono dileguati nella notte di quel 28 maggio? Testimoni raccontano di aver sentito prima delle grida, e poi un tonfo. La dinamica non è poi cosa assurda da ricostruire. Almeno per chi voglia farlo in buona fede. Francesco Cecchin è stato inseguito dai suoi aggressori, ha scavalcato il cancelletto di via Montebuono 5 (dove abita un suo amico), ma è stato raggiunto e picchiato in maniera feroce. Ha provato a difendersi con un mazzo di chiavi, ma, dopo aver perso i sensi , è stato buttato giù dal muretto. È stato ucciso. Assassinato. Ma l’omicidio si vuole nascondere. Secondo i tre periti nominati dal Tribunale: Alvaro Marchiori, Gaetano Secca e Giancarlo Ronchi, non c’è nulla che possa dimostrare che Cecchin sia stato picchiato e poi gettato dal muretto. Ci risiamo. Ancora una volta si vuole far pensare che sia stato solo un brutto incidente. Qualcuno ha anche il coraggio di negare che ci sia stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori, come ha fatto il commissario, il Dott. Scali. Ma i camerati no. Loro vogliono andare a fondo ed iniziano a fare indagini parallele. Raccolgono il materiale necessario per far uscire la verità. Le indagini ufficiali, condotte male, portano in tutto e per tutto all’arresto di Stefano Marozza, indicato come l’autista della Fiat. Marozza, però, ha un alibi. Dice che quella sera è andato al cinema a vede “Il Vizzietto” al cinema Ariel. Peccato però che quel film, all’Ariel, non viene proiettato. Marozza entra in carcere a luglio. Viene rilasciato a gennaio grazie alla solerte opera di protezione messa in atto dal Pci che, nel frattempo, gli ha fabbricato un nuovo alibi. Ad hoc. La sentenza di assoluzione ha dell’incredibile. È una condanna senza colpevole: “veramente grave e singolare appare che i periti non abbiano approfondito l'indagine, non si siano recati sul terrazzo dell'abitazione degli Ottaviani(…) Altrettanto singolare che non abbiano tenuto in alcun conto i referti dell'ospedale San Giovanni. È convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario”.

La morte di Francesco Cecchin, una faccia da angelo ed un cuore, nero, da rivoluzionario è rimasta senza colpevoli.
Quel ragazzo di diciassette anni, militante, ammazzato da un branco di vigliacchi, vive in tutti i suoi camerati.
Ancora oggi.
Nel loro ricordo non lo hanno ucciso.
Francesco è presente!

FONTE:http://www.ilgiornaleditalia.org/.../Francesco-Cecchin... 

 

Ultras Brescia a Foggia, 1996-97


 

Ultras Trieste


 

Granata Korps in trasferta, inizio anni '90


 

Fiorentina - Roma, 1985-86


 

sabato 7 giugno 2025

NON FARE IL SOMARO - MANDALI A CAGARE - NON VOTARE - 17 FOTO + ARTICOLI



A VOLTE RITORNANO
ecco perché boicottare i referendum. 

Sono loro: quelli a cui entreranno i rimborsi, a spese del contribuente, nel caso di raggiungimento del quorum. 

La CGIL, un sindacato inutile se non per curare i propri business, quelli che si opponevano alle assunzioni di lavoratori in nome dell'antifascismo in passato, di seguito favorevoli al green pass, " vittime di un assalto " che non è mai avvenuto, se non nella testa del ministro Lamorgese all'epoca che farneticava di agenti in borghese che " avrebbero provato il moto ondulatorio " dei blindati della polizia per coprire i veri agenti provocatori, senza che nessuno gli chiedesse conto, un po' come succede a Prodi al quale nessuno ha mai chiesto conto di sue passioni per le sedute spiritiche o della famosa frase secondo cui con l'euro avremmo tutti lavorato di meno e guadagnato di più. A proposito chi era il prefetto di Roma in quelle giornate? L'attuale ministro dell'interno Piantedosi: si trattava di una manifestazione più che legittima vista la situazione sulla quale ci hanno speculato sopra tutti quanti, ma non i manifestanti che invece sono stati denunciati e carcerati, ed ancora sotto processo, bensì sindacati, partiti ed istituzioni.

Il partito democratico, quello stesso che ha bloccato l'articolo 18 con il job act e che adesso, " poveri smemorati " al pari della CGIL che all'epoca nulla fece per opporsi, ne vorrebbe la reintroduzione. 

I vari fautori della " società aperta " che vogliono abbassare a 5 anni la questione della cittadinanza per gli immigrati, con i vari Soumahoro di turno in attesa di aggiungere un altro tassello per la realizzazione dei loro progetti. La società multirazziale non è più un incubo da scacciare, ma una realtà già fin troppo consolidata sulla quale non si dovrebbe abbassare la guardia. 

" Magistratura democratica ", quella magistatura che adesso uscirà rafforzata grazie al " decreto sicurezza " del centro-destra, sindacati, partiti e micropartiti,  ed ora pure la Fornero, quella che con sfacciate lacrime di coccodrillo ha fatto rinviare l'arrivo della pensione a tantissimi italiani durante il suo scellerato mandato nel corso del " governo " Monti, ovvero la dittatura democratica. 

Andare a votare significa essere conniventi e loro complici, volenti o nolenti:

 fanculo il loro mondo!


 




A chi ha proposto il referendum del nove giugno non importa nulla del lavoro e delle sue condizioni, tant'è che ogni volta che ha potuto non ha fatto altro che massacrare impietosamente i lavoratori e il mondo del lavoro (leggi: jobs act, rimozione dell'articolo 18, precarizzazione selvaggia).

 In compenso, gli sta molto a cuore l'allargamento illimitato della cittadinanza, che è poi uno dei tanti modi per distruggere il concetto stesso di cittadinanza connessa ai diritti e ai doveri dello Stato nazionale sovrano.

 Su questo punto, si legga il noto passaggio del Leopardi nello "Zibaldone": "quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; 
e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: 
e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto".




















Bisognerebbe fare un referendum abrogativo, ma per abolire la CGIL!

 La CGIL è il sindacato che ha approvato la fine della scala mobile, difeso l'euro, la moneta della svalutazione salariale e della disoccupazione di massa, e difeso i vaccini, strumento di morte delle case farmaceutiche. Tale sindacato si presenta con un referendum per abolire le "riforme" di Renzi, ripristinare l'art.18 e, al tempo stesso, ridurre gli anni per diventare cittadini italiani da 10 a 5. Da un lato quindi fingono, come sempre, di essere contro il precariato e dall'altro si adoperano per favorire l'immigrazione e continuare ad abbassare i salari e disoccupare gli italiani. 

Sì, bisognerebbe fare un referendum abrogativo, ma per abolire la CGIL.













STUDENTI IN FESTA